Eccomi di nuovo nel déjà vu. Il freddo è tagliente, provo un senso di colpa che non mi spiego, ho paura di aver dimenticato qualcosa. Un uomo muore davanti a me. Sono nell’ufficio del mio capo, un bicchiere d’acqua e una pillola sul tavolo. Musica dei Radiohead, non capisco da dove arrivi. Mando giù la pillola, lascio cadere la testa all’indietro e guardo il soffitto.
“There are two colours in my head What, what is that you try to say?”
Forse sto guardando il soffitto di casa mia. Sogno? La musica arriva dal cellulare sul comodino, è la sveglia. Leggo sul display che sono le otto di sera, tra due ore comincia la mia giornata, anzi nottata, lavorativa.
Era un sogno. Mi alzo dal letto e il contatto col pavimento gelido mi fa svegliare del tutto. Sul davanzale della finestra l’accumulo di neve non smette di crescere e dal cielo continuano a fioccare scaglie di inverno grattugiato. Sembra che Febbraio non debba finire mai. Comincio a odiare questo inverno. Non sopporto più
nulla. Il vero problema è il mio lavoro, ma so che qualcosa sta per cambiare. Il capo me l’ha detto chiaramente: accetterò la promozione e il mio debito sarà cancellato. Ancora un po’ di pazienza, due o tre settimane, ha promesso.
Cammino in direzione della cucina e il dolore all’occhio torna a farsi vivo. Da quanto tempo va avanti questa storia? Decido di ignorarlo e cerco qualcosa da mangiare. Trovo solo pane e marmellata di ciliegie.
Apro il frigo, prendo una bottiglia di latte e riempio una tazza. La metto sul tavolo e rimango qualche minuto a osservarla. Mi piace il colore del latte, è un colore luminoso e pulito. Il bianco sta bene su tutto, a parte le automobili. Perché un’auto bianca o è una gran macchina o è un taxi.
Io non guido una gran macchina.
Mando giù tre sorsi abbondanti. Se fossero le otto del mattino sarebbe un bel modo per cominciare la giornata, ma è sera e non c’è motivo di pensare che la notte in arrivo porti qualcosa di buono.
Preparo un caffè e lo unisco al latte rimasto, aggiungo vodka e la tazza è di nuovo piena. Mangio e poi bevo. La sensazione è di calore, si propaga lungo le braccia, scende verso le gambe e risale fino alla testa.
Bello.
Mi guardo allo specchio. Metto due dita sullo zigomo sinistro e tiro la pelle verso il basso. Le macchie bianche all’interno della palpebra inferiore sono diventate tre.
Mancano venti minuti alle dieci e sono già al volante che guido verso il centro, in attesa della prima chiamata. Stare fermo a parlare con i colleghi non mi piace, preferisco girare per la città. Il capo lo sa e mi lascia fare.
Mi godo le strade semivuote e i monumenti illuminati. Attraverso un ponte sopra il fiume, lungo e scuro, che taglia in due la zona est, quella che si estende verso la collina. La luce arancione dei lampioni accentua la presenza della neve sull’asfalto e sembra quasi dilatare i fiocchi che cadono dal cielo. Il termometro segna cinque gradi sotto zero e faccio zapping con i canali della radio.
Musica dance. Non mi va. Cambio frequenza.
Radiogiornale: fuga di gas, cinque morti e dodici feriti nel crollo di una palazzina.
Cambio frequenza.
“Non pensate che il Creatore sia soltanto colui che ha creato dal nulla. Il Creatore conserva ciò che esiste. Egli mantiene ciò che ha creato. E’ lui che dobbiamo pregare, è a lui che dobbiamo obbedire.”
Cambio frequenza. Pubblicità.
Spengo la radio.
Ho un po’ di musica sulla chiavetta. Seleziono la cartella “Massive Attack” e scelgo la riproduzione casuale.
Eccetto l’impianto Hi-Fi, odio anche questa macchina.
Devo liberarmene al più presto, in qualche modo.
La prima chiamata arriva alle dieci e mezza: via dell’Arsenale, destinazione Aeroporto.
Spengo il motore davanti al civico numero 6 e aspetto. Sotto i portici c’è poca gente che cammina. Un uomo e un cane dormono sul pavimento, davanti a una vetrina luccicante che espone capsule di lusso per le macchinette del caffè. Mi chiedo se la coperta che li avvolge potrà bastare, se almeno uno dei due vedrà l’alba domattina.
Sento il rumore di un portone che si apre. Una signora di mezza età esce, si dirige verso di me ed entra in macchina.
«Buonasera, andiamo in Aeroporto. Grazie.» Lo so che va in Aeroporto.
«Va bene la tangenziale, Signora?» le chiedo guardandola nello specchietto.
«Sì sì, faccia lei. Posso prendere una caramella?»
«Certamente, sono a disposizione dei clienti. Questa sera si può scegliere tra balsamiche alla menta, limone con vitamina C e tanti coccodrilli gommosi che ho qui nel cassettino, se preferisce.»
Sorrido.
La cliente ride, mostrando denti molto bianchi.
«Ma lei è gentilissimo!»
Mi chiedo quanto trucco si sia spalmata sulla faccia.
«Solo il meglio per i miei passeggeri.»
Si guida bene di notte. Le strade sono libere, i semafori lampeggiano su un solo colore e non ci sono troppi incapaci al volante. Niente clacson, soltanto silenzio e la mia radio.
«Non canta nessuno in questa canzone?» mi chiede.
«No Signora, è solo musica. Se vuole metto qualcos’altro.»
«Lasci pure, mi piace. Come si intitola?» Le rispondo «Exchange».
Mi racconta che va a prendere sua figlia, torna da una vacanza in Brasile. L’aereo ha fatto scalo in Francia e da lì è partito in ritardo a causa della scarsa visibilità e del ghiaccio accumulato sulle ali.
«Sa, lì era estate. Povera bambina… ha trovato una differenza di almeno trenta gradi atterrando a Parigi!»
Cerco di mostrare solidarietà esibendo la faccia più preoccupata che ho.
Dopo qualche minuto cambia argomento e parla di taxi.
«Ho letto un articolo, sa? Scrivevano di un’inchiesta partita qualche mese fa. Tassisti che effettuano servizi “speciali” e poco legali. Lei ne sa qualcosa?»
Sì.
«Come si conclude l’articolo, Signora?»
«C’era scritto che la Procura ha concluso l’inchiesta. Non ci sono indagati e nessun reato è stato commesso. Lei cosa ne pensa?»
Io penso a fare bene il mio lavoro in modo da poterlo lasciare al più presto, tutto qua.
«Penso che bisogna avere fiducia nella giustizia.»
«Ha ragione… e poi se sono tutti come lei non c’è di che preoccuparsi. Si vede che è un bravo ragazzo! Vero?»
«Purtroppo non è così, Signora.»
Mi guarda con aria tesa. «In che senso?»
«Non sono più un ragazzo.» Sorrido.
Lei ride.
«Be’… però è bravo!»
L’aeroporto diventa visibile quando mancano ormai poche centinaia di metri alla destinazione. Tutto ciò che riesco a distinguere in mezzo agli strati di nebbia sono le luci intermittenti della pista di atterraggio e un enorme manifesto che pubblicizza la nuova minicar firmata dallo stilista del momento.
«Arrivederci Signora, mi saluti sua figlia.»
Mentre percorro al contrario la strada che ho fatto prima, la foschia aumenta e la visibilità diminuisce. La strada è ricoperta di neve, mi sembra di guidare in mezzo alle nuvole. Decido che è arrivato il momento di completare la mia cena e mi fermo dopo qualche chilometro.
La temperatura all’interno della stazione di servizio è decisamente alta ma non mi dà fastidio. Osservo i nomi dei panini e faccio un ripasso di letteratura greca. Alla fine scelgo Ulisse e lo indico alla ragazza che sta dietro il bancone.
«Mi dia anche una birra, per favore.»
«Non possiamo servire alcolici, ma può trovare ciò che desidera nel banco frigo che si trova qui accanto.»
Vado a pagare.
«Con un euro e cinquanta in più prende anche la macedonia di frutta, la vuole?»
«No.»
«Prende il caffè?»
«No.»
«Vuole un gratta e vinci?»
Rimango zitto e guardo la cassiera. Non mi fa altre domande.
Sono stanco di questo lavoro, non ricordo neanche quando l’ho cominciato. Il fatto che sia sempre di notte però mi aiuta a sopportarlo meglio, o almeno questo è ciò che credo.
Da qualche mese non sto bene. Il dottore dice che i vuoti di memoria sono legati alla mia attività.
“Non puoi andare avanti così, lavorare di notte ti sta stressando troppo. Passi le giornate a letto, con le serrande abbassate e riesci a dormire non più di qualche ora. Hai bisogno di vedere la luce del sole ogni tanto. Sarai mica un vampiro?”
Gli ho detto che sono un vampiro.
“Fantastico! Perché non me l’hai detto subito? Non immagini quante ragazzine, tra cui mia figlia, sognano di incontrare uno come te. Dovresti sfruttare questa opportunità, faresti un sacco di soldi.”
Non è ancora riuscito a guarirmi ma è simpatico, il mio dottore.
Con un po’ di birra in corpo affronto meglio il ritorno in macchina, anche se trovare un’auto bianca in mezzo alla neve e alla nebbia non è così facile, ma alla fine la raggiungo.
Sto per salire a bordo quando i passi di qualcuno che si avvicina mi fanno voltare d’istinto. Vedo un uomo dall’età indefinibile. Potrebbe averne trenta, quaranta o chissà quanti. E’ molto magro. Il viso scavato e gli occhi vitrei sono avvolti dentro un cappuccio che tiene sulla testa.
Quando apre la bocca vedo la luce del lampione riflessa su alcuni denti di metallo.
«Devo andare in città, quanto costa?»
Gli spiego che posso accettare solo chiamate che mi arrivano dalla centrale. Se vuole un taxi deve telefonare.
«Non hai clienti adesso, che problema c’è? Guarda che pago.»
Non fare casini, stai calmo. Niente guai. Non adesso che manca poco.
«Sali.»
Metto in moto e faccio retromarcia, le ruote tendono a slittare sulla neve. Il mio nuovo cliente ha la testa appoggiata sul finestrino e tiene gli occhi chiusi. Evito di fargli domande e lo lascio riposare.
Tengo entrambe le mani sullo sterzo ed entro lentamente nello stato di semiveglia che accompagna la maggior parte delle mie ore lavorative. Ormai conosco fin troppo bene i corsi e le vie di questa città. Vorrei che questa brutta automobile a gas si guidasse da sola. Vorrei stendermi sui sedili posteriori e dormire. Svegliarmi col sole e prendermi una vacanza. Poi tornare a casa e iniziare un nuovo lavoro. Un lavoro pulito.
Una fitta alla palpebra interrompe il mio sogno ad occhi semiaperti e mi rendo conto che sarebbe ora di prenotare
una visita dall’oculista. Forse sto perdendo la vista, mi scriveranno “guida con lenti” sulla patente.
Dopo mezz’ora attraversiamo un quartiere periferico a nord della città. Chiedo all’uomo col cappuccio dove vuole andare, alzando un po’ la voce per svegliarlo.
«Tu vai» mi sento rispondere.
«Ascolta, io sto lavorando. Adesso mi dai un indirizzo e io ti ci porto. Fai un piccolo sforzo e dimmi dove vuoi andare, non posso perdere altro tempo con te.»
Il tizio non si scompone. Un’espressione falsa e amichevole appare tra le rughe della sua faccia consumata.
«Come ti chiami, tassista?» Comincio a innervosirmi.
«Ray.»
L’incappucciato si mette a ridere. O la smette subito o gli stacco quei denti metallici con le mie mani.
«Che cazzo di nome è Ray?»
Provo a mantenere la calma per altri cinque minuti, dopo non garantisco niente.
«E’ il diminutivo di Raymond. Mia madre era scozzese e le piaceva quel nome. Qualche problema, amico?»
Amico un corno. La bestia tira fuori una lama e me la punta alla gola.